L e cose da esprimere sarebbero – sono – parecchie. Non basta una pagina bianca per scriverle, non bastano le parole per comunicarle. Si tratta di cose che si esperiscono e difficilmente si dicono, ma è bene provare a tradurle in verbi e sostantivi. Per dare loro un significato condivisibile. Per renderle reali, motivo d’azione e non soltanto di sentimento. Per far sì che abbiano dei contorni e non siano fortuite mine vaganti. Per capirne anche meglio il senso.
Il mio psicologo mi punzecchiava. “Sei brava a viaggiare e disegnare con le parole, sei molto brava. Ma in quelle parole, di te, cosa c’è?”. Ed io continuavo: “Capisco. Devo scriverle per leggerle. Dirle per sentirle”. Silenzio.
L’apertura di questo blog non nasce dalla mia personale volontà di argomentare la storia del signor Pilates o l’immagine di Hanuman – l’uomo-scimmia – nella spaccata yogica. Nasce dalla mera esigenza di essere oggetto di scoperta nella giungla di internet. Se hai un’attività, non puoi rinunciare a una pagina Facebook. E devi avere un profilo Instagram. E un sito web. E un blog. E, e, e… finora la piccola realtà di Essere Centro è sopravvissuta senza tanti fronzoli identitari e reti sociali virtuali. Costruita da e con persone tangibili, quotidianamente toccabili, è cresciuta bastando a se stessa, con un post o una recensione qua e là. Ma i tempi, le circostanze cambiano. Essere Centro si è trasferita – concedimi il femminile, visto che di donne è fatta – anche a casa tua. E per raggiungere la casa del tuo lontano amico ha bisogno di adattarsi al flusso degli eventi. Ha bisogno, sì. Per andare avanti e continuare ad essere, non a crescere.
La pandemia forse, domani, non radicherà l’ideale del prendersi cura di sé, del proprio tempo e del proprio spazio, come condizione unica e irripetibile per prendersi poi cura del mondo tutto.
Ma la pandemia, oggi, educa alla resilienza e alla flessibilità. Questa è una certezza.
Quindi eccomi, eccoci qui. A caccia di sbirciate sui social network, quelle (sovra)strutture fino a ieri innominabili.
Eccomi qui, avvolta da una miscela di gratitudine e rabbia. Due sentimenti che sanno abbracciarsi come noi non possiamo pubblicamente fare.
La gratitudine non è misera e apatica accondiscendenza passiva alla vita. Tutt’altro. È ciò che permette di vivere bene, anche con poco, godendo di ciò che si ha. Senza tiritere, senza lamenti spossanti. È ciò che ti aiuta a dire grazie anziché sempre e soltanto prego. È ciò che in alcuni momenti ti salva. Mi salva.
Sono così grata di poter essere serena pur nelle difficoltà del momento.
Sono così intimamente e autenticamente felice di poter ringraziare: la persona in divenire che sono, non ero e non sarò; le persone che mi stanno accanto – anche te, che ora mi leggi; quelle piccole cose che si sono create e dissolte, ma che non giacciono dimenticate; il mondo per quello che è.
Sono così libera nel non farmi sopraffare dalla persona che ero o che sarò chiamata ad essere; dalle persone che si sono allontanate, per arbitrio o destino; da cose solo apparentemente indispensabili; dal mondo per quello che è, non è, vorrei ma non potrei fare che sia…
Eppure, sono arrabbiata. Incazzata nera. Con il mondo per quello che potrebbe essere e non è, a prescindere dalla mia azione. Per quel mondo per cui sono anche grata. Vivo, partecipo, conduco più o meno silenziose battaglie (una parola pacifica per trasmettere questo concetto esiste?!). Non sono ferma e rassegnata. Purtroppo, però, ci sono cose che possono cambiare e non puoi cambiare tu. E quelle tocca accettarle. Ci sono cose che possono cambiare e puoi cambiare anche – non solo – tu. Lentamente. E per quelle tocca anche alzare i toni, a volte.
La dignità non è cosa prorogabile o calpestabile. È cosa per cui si vive e ci si impegna. La dignità arriva attraverso il proprio essere, le proprie esperienze, i propri errori, la propria azione. Non attraverso la stasi. Sono abbastanza grata per concepirne l’immenso significato. Sono abbastanza arrabbiata per far sì che entità più grandi di me non ne facciano il niente. Impedendomi di agire, fare e lavorare – almeno, non impedendomi di essere – erroneamente pensando che, essendo io un insettino, mi fermi davanti alla montagna. Le risorse a volte sono invisibili a occhi grandi che guardano e non vedono. Ma ci sono. E si palesano anche in questo confuso accozzame verbale.
La formica porta pesi che non so quante migliaia di volte valgono il suo.
Grata, incazzata, cambiata se non cresciuta, oggi mi sento formica.
Canto come una cicala, ma mi sento formica. E come tale pratico, fuori e dentro dal tappetino. Nella vita.
Queste righe – pienamente mie – sono righe non marcate per essere indicizzate. Sono righe dedicate all’umanità di noi formiche. Resilienti. Flessibili. Forti e vulnerabili insieme.